Sta arrivando. È lui, il temuto numero che non riesco a pronunciare. Le labbra tremano, ba-ba-balbetto frasi incomprensibili, mi tocco continuamente il viso per cogliere un cambiamento, un mutamento irreversibile.
A quarant’anni non mi sentivo così dannatamente scossa e irrequieta. Pronunciavo e scandivo q-u-a-r-a-n-t-a come se avessi tra le mani un prezioso trofeo. Ora sono una donna matura e saggia, mi ripetevo.
Dieci anni sono passati in fretta e oggi mi pesa contare il mezzo secolo di vita che scatterà a dicembre 2017.
La conoscenza empirica che si ha dell’altro, diciamolo, è spesso arbitraria e chi percepisce lascia circolare impunemente le sue interpretazioni.
La goffa scrivi-scrivi che è in me crede che la percezione sia un grande equivoco e quel che ne vien fuori è il distorto dialogo tra due persone.
Me lo immagino l’incontro, due storie che si fronteggiano e lo scontro con la materialità dei loro corpi è inevitabile.
Ma i corpi sono un limite invalicabile, una tela amorfa e mal dipinta, che anelano il dovuto riconoscimento nella realtà.
“La realtà non è il reale”, mi dice un amico filosofo. “Attenta a cosa scrivi, i discepoli di Lacan potrebbero infuriarsi”.
Ma poiché io sono una goffa scrivi-scrivi faccio come mi pare, sono il buffone di corte e mi prendo il lusso di imbrattare i vostri schermi con le mie assurde teorie.
“… sbircio un cielo che trema di luci come il mare d’agosto trema di alici…” E. De Luca
Eccomi di nuovo a scrivere le mie impressioni sul libro appena finito, l’ennesimo passaggio che uno scrittore mi ha dato verso un luogo prima sconosciuto e che ora farà parte dei miei ricordi.
La lettura di Montedidio di Erri De Luca è stato quel silenzioso passaggio che ha calzato le mie ore, ha guastato il chiasso di questo vicolo per farne luce e quiete.
Ho afferrato e stretto la mano dell’autore e, senza alcuna resistenza, ho percorso il libro dalla prima all’ultima pagina, muta e vigile come un pesce incantato.
È sulla soglia di casa che si ferma tutto il male del mondo.
Ci indigniamo furiosamente per le cose brutte che vediamo scorrere sullo schermo del nostro computer oppure in tv.
Ci sentiamo parte del tutto se anche la rabbia è comune e condivisa e allora sfoggiamo bandiere di pace nei nostri profili social oppure sosteniamo proteste purché restino fuori dalle nostre abitazioni.
Quando finisco di leggere un libro, un bel romanzo corposo e intenso come "Il giorno del giudizio" di Salvatore Satta, mi ritrovo orfana e spaesata.
Perché è questo che fa un buon libro, ti trascina lontano per poi riportarti dove tutto è iniziato.
E mi ritrovo all’alba a riflettere sul romanzo appena terminato e mi abbandono a questo senso di vuoto che mi prende mentre cerco le parole giuste per descriverlo.